ELISABETTA. SIAMO MAMME MA SIAMO ANCHE DONNE.

Al telefono, Elisabetta ha il fiatone: “Sono sempre di corsa” si scusa affannata. “Esco dal lavoro, asilo uno, asilo due”. Un gran sospiro: “Cresceranno pure”.Siamo a Sarezzo, piccolo comune nel cuore della Val Trompia, arrampicato a 300 metri sopra il livello del mare. Al centro della bella piazza, svetta la torre campanaria edificata nel 1585 con il contributo della popolazione che volle dedicarla ai santi protettori del paese, Faustino e Giovita. Qui, in una casa affacciata sulla piazza, vive e lavora Elisabetta. L’asilo è a due passi, l’azienda, dove lavora da 20 anni, vicina alla scuola. La caotica Brescia dista 14 chilometri: al suo confronto, Sarezzo sembra un’oasi di pace. Un’illusione che Elisabetta spazza via con le prime parole che pronuncia. “La mia giornata comincia alle 6 e 30. Sistemo casa, sveglio i bambini, la colazione. Li lavo e li preparo. Alle 8 e 10 partiamo”. Simone, il più grande, 5 anni, è nato a dicembre: al momento di inserirlo all’asilo, le iscrizioni a Sarezzo sono chiuse, quindi Elisabetta deve portarlo a Lumezzane, che dista 5 km. E’ un ottimo asilo privato e prevede una riduzione della retta per fratelli. Così, quando nasce Andrea, Elisabetta pensa di portare lì anche lui, facendo un solo giro: ma nel frattempo la convenzione è stata cancellata e Andrea finisce al nido di Sarezzo. Quindi, partenza alle 8 e 10 per l’asilo di Lumezzane con i due bambini, tappa all’asilo Bonomi, ritorno a Sarezzo alle 8 e 40, nido, al lavoro alle 9. “Non mangio per fare l’orario continuato e uscire alle cinque”. La Cicogna ballerina, il nido di Sarezzo, chiude alle 17 e 30. “Se supero le otto ore, aumenta la retta”. Già, le rette: non sono uno scherzo per il bilancio di una famiglia. 400 euro il nido, che aumenta a 470 dopo le otto ore, 235 l’asilo di Simone. E poi c’è il mutuo di 700 euro al mese, le bollette, la macchina. E tutto il resto. “Esco dall’ufficio, prendo il piccolo, vado a ritirare il grande, faccio la spesa”. Poi la cena, il bagnetto dei bambini e finalmente tutti a dormire. Pronti a ricominciare la mattina dopo, cinque giorni su sette. “Il sabato si fanno i mestieri”. 

Elisabetta si diploma nel 1994, a marzo ’95 lavora già: e oggi è ancora lì, nella stessa azienda. Di mezzo, ci sono stati un fallimento, una riassunzione e, adesso, la crisi, che vuole dire cassa integrazione prima, contratto di solidarietà oggi. Quando nasce Simone, il primo, la tentazione di lasciare non c’è: “La mamma del mio compagno mi dava una mano, adesso purtroppo non c’è più”. Ride amaro, Elisabetta: “I nonni, sono loro gli ammortizzatori sociali. La mia mamma lavora, ha un negozio, il papà non può gestire un bambino di pochi mesi. Così, a dicembre, ho iniziato l’inserimento di Andrea al nido, dopo avere utilizzato tutte le ferie. Certo, sarebbe bellissimo che la maternità potesse durare di più, almeno 8, 9 mesi, come accade in altri Paesi. Ma così, chi lo paga, il mutuo?”. E allora, si porta il bambino al nido: “Lì ho visto l’avviso della Dote. Sono andata all’Asl dove, verificati i requisiti – il rientro al lavoro a tempo pieno, il bambino al nido – abbiamo compilato i moduli. Poi ho portato le fatture, è stato semplice”.

Nella provincia di Brescia, racconta Piergiorgio Guizzi, responsabile del servizio “Sviluppo Piani di zona e programmazione integrata” della Asl, al momento di progettare gli interventi di conciliazione si sono scontrati col “numero esorbitante di madri che, al termine dell’aspettativa, decidevano di dare le dimissioni e di non rientrare al lavoro. Nel 2010 si erano licenziate 795 donne”. Non è un fenomeno che riguardi soltanto la provincia di Brescia. In Lombardia, secondo dati Istat, sono circa 5000 all’anno le donne che lasciano il lavoro durante i primi 12 mesi di vita del bambino. Un campione a rischio, soprattutto in tempi che, con la crisi, aumentano la difficoltà delle donne di rientrare nel mercato del lavoro, una volta che lo hanno abbandonato. Sono tante, 800 lavoratrici che si licenziano, anche a Brescia, dove il tasso di occupazione è leggermente superiore a quello lombardo. Si tratta, raccontano le statistiche, di persone che lavorano tra commercio e servizi, in piccole e medie imprese. La maggior parte di loro ha uno o due figli. 500 di loro hanno un’età che si aggira tra i 26 e i 35 anni: di queste, 380 sono italiane, 40 vengono da un Paese europeo, 80 sono extracomunitarie. Tra le principali motivazioni registrate dalla Direzione del Lavoro, dove il lavoratore deve presentarsi per confermare le dimissioni, “la difficoltà a sostenere l’onere della retta all’asilo nido, la mancanza di nidi in zone vicine al lavoro o all’abitazione, le liste d’attesa”.
Il Piano di azione territoriale a sostegno della conciliazione famiglia-lavoro prevede che l’Asl di Brescia possa sperimentare la Dote Conciliazione – Servizi alla Persona. “Così ci siamo accordati con la Direzione del Lavoro” prosegue Guizzi “perché le donne venissero a conoscenza di un aiuto, la Dote, per evitare il licenziamento e sostenere le spese del nido”. Ai colloqui si presentano in poche, nonostante il trend del 2011 sia simile a quello dell’anno precedente, con 400 dimissioni a metà anno. “Abbiamo capito che c’erano altre motivazioni, spesso non dette, per spiegare le dimissioni dal lavoro. Molte preferivano licenziarsi e avere otto mesi di sussidio di disoccupazione, che si aggira intorno al 70,80% dello stipendio. E’ evidente che, tenendo conto solo della questione economica, le cifre percepite non erano paragonabili con i 1600 euro della Dote per otto mesi”. La seconda motivazione, più che col nido, ha a che fare con i rapporti interni all’azienda: “Non si trovavano bene, avvertivano pressioni eccessive da parte dei datori di lavoro, spesso al rientro si vedevano prospettate mansioni ed orari diversi da prima. E in famiglia, con la nascita di un bambino, emergono esigenze nuove”. Se l’obiettivo di ridurre il numero delle dimissioni viene centrato in minima parte – solo 10 su 795 accettano di tornare al lavoro -, il risultato è importante. Si verifica la necessità di intercettare le lavoratrici prima che l’orientamento all’abbandono sia consolidato, si sceglie di lavorare più a fondo sui progetti di conciliazione indirizzati alle imprese, si intensificano “i rapporti con le associazioni di categoria, ampliando il numero delle imprese che partecipano ad azioni di riorganizzazione aziendale e che attivano iniziative per i dipendenti e il territorio”. L’obiettivo è ambizioso: “Fare in modo che la Rete di conciliazione sia sempre più vasta e che le nuove aziende che entrano in campo mettano risorse per la prosecuzione dei progetti avviati”. Non è facile aggregare in una realtà come quella di Brescia, fatta di piccolissime imprese. Con la crisi che picchia, il problema della conciliazione famiglia-lavoro rischia di passare in secondo piano. “Nel 2010 sono stati attivati nuovi posti di lavoro: 66.870 per gli uomini, 41.172 per le donne. Nel contempo, però, hanno cessato il lavoro complessivamente 123.716 lavoratori, 72.795 maschi e 50.921 femmine. La quota di chi lascia – perché dà le dimissioni o viene licenziato – è superiore a quella di chi subentra. E’ un fattore che fa riflettere”.

Ma torniamo a Elisabetta, per capire in cosa consista il bisogno reale di conciliare famiglia e lavoro. Perché non si tratta soltanto dei bambini. “Ho un compagno che mi aiuta abbastanza” racconta. «Purtroppo non risiede con me perché gli è morta la mamma e ha un papà molto anziano. E quindi, o ci teniamo il nonno in casa o ci dividiamo in queste cose. Lui lavora dalle 7 alle 17, a volte 18, poi deve accudire suo padre. Cosa devo fare, dire: “No, non vai dal tuo papà?”». Per fortuna, c’è l’altro nonno, 69 anni portati bene: “Va a prendere il piccolo, mi fa la spesa, la posta, la banca. La mamma ha un negozio: quando il grande è malato, lo mando da lei che lo fa disegnare. Ma se si ammala il piccolo, devo stare a casa e bombardarlo di antibiotici per tornare in fretta al lavoro”. Elisabetta è una donna forte e determinata, ha energia da vendere. Nella sua azienda, è stata lei a studiare il contratto di solidarietà, più conveniente della cassa integrazione, e a convincere il titolare: “Tutti mi chiamano per chiedermi come ho fatto”. Però le si spezza la voce quando racconta di Andrea, di quel giorno che improvvisamente, in macchina, ha avuto le convulsioni. “L’ho portato in ospedale, pensavo che stesse morendo, invece era solo la febbre. L’altro bambino, Simone, non ha parlato per due ore. Il giorno dopo ero in ufficio”.
Al suo posto, ci tiene, Elisabetta. “Ho delle responsabilità, sono la classica impiegata storica, che sa tutto. In un’azienda di 25 persone, dato il tempo che tira, facciamo i salti mortali: siamo a personale ridotto, si fa in due o tre il lavoro che prima si faceva in quattro o cinque. Se non fossi tornata adesso al lavoro, sarei finita a fare la centralinista. D’altra parte, l’azienda deve andare avanti. E’ dura, ma ho 38 anni e mi dico che non posso tornare a fare la cavia in un altro posto, ricominciare a rispondere al telefono. La mia gavetta l’ho fatta. Cosa crede, è anche questione di orgoglio, non mollerei mai il mio lavoro”. Alcune amiche lo hanno fatto: sono tra quelle 785 che hanno ceduto allo sconforto, alla stanchezza, alla preoccupazione. “Sono rimaste a casa e adesso sono in depressione. Perché i bambini crescono. Rinunci al costo dell’asilo, poi loro vanno a scuola e tu, tutto il giorno in casa da sola, finisci dallo psicologo e prendi gli antidepressivi. Oppure vai a fare le pulizie in nero”. Quando ha saputo della Dote, lo ha detto a tutte le sue amiche, perché anche loro avessero quello che lei chiama “un attimo di sollievo, un bel respiro”. E si è beccata persino i ringraziamenti dell’Asl. «Anna (il nome è di fantasia, ndr) è impiegata come me. Mi diceva: “Come faccio?”. I suoi genitori sono morti, conta sulla suocera che però ha in casa la nonna centenaria, ha un bambino di due anni che manda al nido e una sorella che la aiuta con le pulizie. Ma non sono solo i bambini, c’è da lavare, stirare. Intanto le ho detto della Dote e l’ho mandata all’Asl. E non solo lei: l’ho detto a tutte perché poi, sa, nessuno legge gli avvisi. Pensi che quando l’ho detto a una vicina di casa, si è messa a piangere”. E’ vero, lavorare stanca, però… “Guardi, siamo mamme ma siamo anche donne. Tante se ne dimenticano, in questa fase: con i primi figli ci si annulla, i bambini sono davanti a tutto. Però, nelle ore che vivo senza di loro, ho un ruolo e mi sento importante: corro tutto il giorno ma a sera sono soddisfatta. Mi dico: oggi sono riuscita a fare qualcosa”. Ancora due o tre anni: a settembre, Simone andrà a scuola, Andrea all’asilo, sezione primavera. Già si intravvede una vita più facile. Intanto, si combatte: con i soldi, gli orari, il datore di lavoro. “Fino a tre anni, se il bambino si ammala, ci sono i permessi obbligatori. Però, certo, storcono sempre il naso. Io sono fortunata, ho un buon rapporto con l’azienda e posso fare l’orario continuato. Ho colleghe che devono svegliare i figli alle 6 e 30, partire alle 7 e 15 per essere in ufficio alle 8. Sa cosa c’è? Che spesso al lavoro parlano bene ma razzolano male: che il tuo bambino sia ammalato può dispiacere, ma alla fine è prioritario l’interesse dell’azienda. Tutti capiscono, la prima volta che capita, e magari anche la seconda. Ma alla terza, non so. Una mia amica col bambino ammalato è dovuta stare a casa 15 giorni: adesso deve lavorare anche la notte per tenersi il posto. Il marito ha un’attività in proprio che non va bene, lei non può perdere il lavoro”.
Grazie al cielo per la Dote, gli asili, e anche per le maestre: «Sabato sera ho la pizza con loro, che ci fanno trovare i bambini già con la giacca a vento: capiscono che siamo di fretta. Da quando il piccolo ha avuto le convulsioni, sono diventata una mamma apprensiva. Loro hanno capito e, quando sono al lavoro, mi arrivano i messaggi: “Ha mangiato”, “non ha la febbre”, “stai tranquilla”». La conciliazione è come un virus che rende più forti. Per Elisabetta, è diventata un modo di pensare: “Ci si aiuta, anche con la vicina di casa: oggi lo prendi te, domani io”. Anche con l’azienda: «Se sono in difficoltà a pagare i dipendenti, sono la prima a dire: “Se non hai i soldi al 15, dai la paga ai papà di famiglia, io aspetto il 18. Perché magari c’è qualcuno che non ha davvero nessuno a cui chiedere aiuto. Io sono fortunata»

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IL DECALOGO DELLA CONCILIAZIONE

E’ possibile lavorare bene senza sacrificare se stessi o la famiglia??

Ecco 10 consigli pratici di Annalisa Valsasina, Consulente HR, psicologa e psicoterapeuta, co-fondatrice di Matrioska Group, per una efficace conciliazione dei tempi di vita e di lavoro 

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  • Parti da ciò che ti piace e ti spinge” nelle cose: per costruire il tuo Work Life Balance hai bisogno di capire quali sono le tue motivazioni, i tuoi obiettivi di benessere nei diversi ambiti di vita, le attività, al lavoro e fuori, che ti fanno stare bene. Questi aspetti sono e saranno la fonte di energia per te, non dimenticarli!
  • Gestisci il tuo tempo e riduci la dispersione di energie: prova ad analizzare il modo in cui distribuisci il tuo tempo, al lavoro e a casa. Quali fattori e attività dispersive puoi eliminare?
  • Stabilisci chiare priorità e pianifica efficacemente le attività nei diversi ambiti: se hai chiare le aree della vita per te prioritarie sceglierai e pianificherai in modo coerente il tempo da investire in queste, stabilendo obiettivi realistici. Fai delle scelte, metti al bando il perfezionismo!
  • Delega ad altri le attività che non richiedono il tuo intervento: chiediti se effettivamente tutto quanto è previsto nella tua “to do list” deve necessariamente essere fatto da te (a casa e al lavoro). Alleggerirsi di attività non significa perdere il controllo delle cose!
  • Impara a dire no: comunica in modo chiaro e assertivo i “confini” rispetto a ciò che puoi e non puoi fare. Darai di te un’immagine di sicurezza e padronanza. Non preoccuparti di “dire no”, spiegandone i motivi: non puoi fare un buon lavoro se sei in sovraccarico, non puoi divertirti ad una festa se sei stanco e stressato.
  • Stabilisci confini di orario e tempo:cerca di vivere con “presenza” ciò che fai e l’ambito in cui sei, godi il relax senza pensare ad altro, stai nel momento. Mantieni un tempo di “non lavoro” di qualità: è ciò che ti consente di recuperare le energie per operare al meglio in azienda. Utilizza la tecnologia (mail, blackberry, ecc.) e la flessibilità che garantisce per gestire il lavoro, ma non lasciare che invada in modo poco controllato i tuoi spazi extra lavorativi.
  • Mantieni consapevolezza rispetto a ciò che vuoi: stabilisci dei momenti di riflessione rispetto a ciò che vuoi e a quali sono i tuoi obiettivi nella vita: aumenterai la tua efficacia e il tuo “potere” di intervento. Progetti e ambizioni possono cambiare nel tempo, non lasciare che le incombenze quotidiane ti prevarichino.
  • Monitora il tuo livello di soddisfazione personale costantemente. Periodicamente chiediti quanto sei soddisfatto dell’equilibrio e dell’energia che stai dedicando ai diversi ambiti della tua vita. Con onestà, individua eventuali aree di miglioramento e definisci concrete azioni per indirizzare gli eventi e le situazioni come desideri. L’equilibrio non è mai raggiunto una volta per tutte! Va rivisto, aggiustato, modificato …e festeggia i risultati!
  • Divertiti in ciò che fai. Fai in modo che ci sia, in buona parte degli ambiti della tua vita, divertimento e piacere in ciò che fai. Se prevalgono stress, fatica, insoddisfazione, senso di impotenza allora non stai realizzando un buon Work Life balance. Recuperare la dimensione del desiderio, del piacere, presente nel lavoro retribuito, nel lavoro di cura, nel tempo per te è importante così come ridimensionare il tema del dovere e delle attese culturali che gravano sui nostri molteplici ruoli.
  • Ascolta il tuo corpo, le emozioni e i pensieri: in ogni momento sono la guida per trovare il tuo corretto equilibrio.

 

PLAYTIMER: ECCO L’APP X GENITORI OBERATI DI LAVORO DURANTE IL TEMPO LIBERO

 

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Una app per passare più tempo con i figli, senza essere interrotti da telefonate e email fuori l’orario di lavoro.

È questa l’iniziativa di Unicef Svezia, che ha lanciato PlayTimer (disponibile per ora solo per iOS) proprio per venire incontro a tutti le mamme e i papà oberati di lavoro durante il tempo libero.

Da una recente indagine condotta proprio dall’organizzazione internazionale, infatti, risulta che l’81% dei genitori svedesi riceve telefonate e email di lavoro sul cellulare, e il 43% ammette che in questo modo perde molto del tempo che passerebbe con i figli.

 

Come funziona Playtimer? Si attiva scattando una foto del bambino, e per un’ora impedisce allo smartphone di ricevere telefonate e email. Se qualcuno tocca il telefonino mentre la app è attiva, scatta un allarme che può essere bloccato solo facendo un’altra foto del piccolo. Naturalmente, non è uno strumento che blocca il cellulare in maniera completa. Si può facilmente disinserire e rimane la possibilità di fare telefonate. Lo scopo, sottolinea Unicef, è di sensibilizzare i datori di lavoro (ma anche i genitori) sull’importanza di staccare la spina e dedicare più tempo ai figli.

LA CURA NON HA ETA’ – Convegno 7 aprile 2014 – Sala delle Colonne BPM

Lunedì scorso (7 aprile) ho partecipato ad un convegno intitolato

“La cura non ha età – La conciliazione familiare per vivere intensamente tutte le fasi della vita” 

organizzato da AUSER LOMBARDIA e ASSOCIAZIONE PARI E DISPARI presso la Sala delle Colonne di BPM a Milano.

UNA MATTINATA DI FERIE SPESA BENE!

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Dopo l’introduzione di LELLA BRAMBILLA (Presidente Auser Regionale Lombardia), ELISABETTA DONATI (Università degli Studi di Torino, Associazione Pari e Dispari) ha aperto i lavori con il suo intervento intitolato “Le domande di cura nella fase più matura: non solo famiglia e lavoro”. La Donati ha tracciato un quadro sintetico ma preciso dei cambiamenti demografici, sociali e culturali in atto: l’invecchiamento delle parentele che fa emergere nuove domande di cura; il maggiore impegno delle donne nell’ambito lavorativo che si somma alle responsabilità familiari e di cura (80% del lavoro di cura in Italia è svolto dalle donne); l’instabilità coniugale che rompe le reti di solidarietà; l’aumento di persone colpite da disabilità non dovute all’età. Ha poi sottolineato come le strategie europee, che vedono nella maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro la soluzione ai problemi della povertà e dell’invecchiamento della popolazione, si stiano rivelando di fatto poco efficaci perchè:

  1. non favoriscono la partecipazione maschile alla cura;
  2. non considerano la “crisi delle reti informali” che fa riferimento principalmente alle cosiddette “nonne sandwich”, schiacciate tra genitori e nipoti;
  3. considerano la conciliazione (e la cura all’interno della famiglia) come un fatto esclusivamente privato;
  4. riferiscono i problemi di conciliazione quasi esclusivamente alle prime fasi del ciclo di vita familiare e alla genitorialità.

Molto interessante anche l’intervento di CAROLINA PELLEGRINI (Consigliera di Parità Regione Lombardia), la quale ha sottolineato, in maniera concisa, gli aspetti cruciali della relazione famiglia-lavoro, che possiamo così riassumere:

  • la conciliazione NON è solo una questione di figli;
  • la conciliazione NON è solo una questione genere;
  • la conciliazione NON è solo tutela di diritti: è in gioco il benessere dei lavoratori e delle aziende;
  • la conciliazione è UNA SFIDA che, data la pluralita di stakeholders, non possiamo non affrontare in maniera integrata.

Dopo un coffee break che ha seriamente messo in difficoltà il mio regime alimentare di dieta (quando mai non succede???), i lavori sono ripresi con una Tavola rotonda a cui sono intervenuti GIOVANNI D’AVERIO (Direttore Generale Assessorato Famiglia,
Solidarietà Sociale e Volontariato Regione Lombardia), STEFANO LANDINI (Rappresentante Segreteria dello SPI-CGIL Lombardia), ENZO COSTA (Presidente Auser Nazionale), RAFFAELLA MAIONI (Presidente Acli Colf Nazionale), ELIO POZZI (Direttore Bormioli Luigi Spa) ed ELENA LATTUADA (Segreteria CGIL Nazionale).

Di questi brevi interventi riporto qui solo alcuni concetti sparsi e spunti di riflessione:

  • la necessità di POLITICHE INTEGRATE e di PROGETTI CONCRETI, siglati con un’alleanza territoriale;
  • il rischio (da contrastare!) che, con la diminuzione delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile, si arrivi ad una ROTTURA INTERGENERAZIONALE;
  • l’importanza di RIPENSARE IL WELFARE IN TERMINI FAMILIARI, e non solo femminili o individuali;
  • il problema della DISOCCUPAZIONE, ovvero: parlare di conciliazione famiglia-lavoro è un lusso in tempi di crisi economica?;
  • il tema della FLESSIBILITA’ richiesta oggi dal mondo del lavoro.

link agli atti del convegno

LEI CONCILIA? (un post di Davide Vassallo dal blog Conciliazione plurale)

“Rebloggo” questo brillante post di Davide Vassallo pubblicato sul blog di Conciliazione Plurale l’11 febbraio scorso.
Sottolineo solo:
1. Amara quanto personalissima (!!) constatazione del fatto che la disponibilità a venire in contro ai bisogni di conciliazione dei dipendenti/colleghi spesso derivi più da sensibilità personali e dal consolidarsi di un rapporto di fiducia che da considerazioni di ordine contrattuale. 
2. Urgenza di promuovere una CULTURA DELLA CONCILIAZIONE!!!
Buona lettura!

La giornata che comincia male…

Non faccio in tempo a uscire dal cortile di casa, accendere l’autoradio e cercare la stazione preferita che, inaspettata e gradita come una cartella di Equitalia, mi trovo davanti la paletta rossa di un vigile.

Una vigilessa, per la precisione.
<<Lei sta guidando senza cinture. Concilia?>>
Sarà per l’ora mattutina che rende difficile la concentrazione, oppure saranno gli occhi scuri della vigilessa, che ricordano quelli di mia moglie, ma mi vien da collegare quella domanda (<<Concilia?>>) a situazioni più famigliari e quotidiane…

Concilio?

Concilio con il mio lavoro
Ossia, come suggerisce l’etimologia del termine, “cerco un accordo” con i miei contesti lavorativi.
Sono un lavoratore dipendente part-time e un consulente libero professionista, buona parte del mio lavoro potrebbe anche essere svolto da casa, in una modalità simile al telelavoro, e le nuove tecnologie consentirebbero agevoli e gratuite teleconferenze.
Ma, almeno per ora, essere presenti nell’ambiente lavorativo, rispettare un orario codificato e fisso, è ancora considerato essenziale anche per mansioni che, in linea di principio, potrebbero godere di maggiore flessibilità.
Ciononostante non mi posso lamentare delle possibilità di conciliazione che trovo nei miei contesti lavorativi: in linea di massima c’è disponibilità ad accogliere le richieste di ritardi imprevisti e slittamenti di agenda per questioni famigliari.
Credo che tale disponibilità derivi più da sensibilità personali e dal consolidarsi di un rapporto di fiducia che da considerazioni di ordine contrattuale. Per tale motivo ritengo prioritario un lavoro di semina di germogli in tema di conciliazione: senza una cultura adeguata, leggi di stato e norme di contratto avranno poco spazio di applicabilità reale… O anche, utilizzando un’altra metafora, tra il contratto di lavoro e l’organizzazione del lavoro c’è un anello (mancante): la cultura della conciliazione, e siti come “Conciliazione plurale” contribuiscono a costruire, mattone per mattone, un cambiamento di prospettiva.
Con il mio lavoro cerco un accordo anche in termini quantitativi: indubbiamente da “single” lavoravo di più. Ora devo sacrificare qualche impegno, concentrarmi su temi prioritari, rimacinare e rielaborare quanto già prodotto per risparmiare sui tempi…
La scelta è stata quella di ridurre la quantità per salvaguardare la qualità…e la salute mentale :-)

Concilio con la mia famiglia
Con la mia consorte abbiamo due bambini, di tre e cinque anni.
In ordine di tempo, la prima strategia conciliativa che ho suggerito derivava da considerazioni di psicologia organizzativa: la famiglia funziona meglio se ognuno si occupa di ciò che esalta le proprie potenzialità e inclinazioni. Io sono bravo a raccontare le storie della buonanotte e pianificare gite…mia moglie dà il meglio di se’ ai fornelli e al ferro da stiro… Per qualche recondito motivo, senz’altro dovuto all’inconoscibile psicologia femminile, tale idea non ha incontrato grande consenso.
Oggi utilizziamo una strategia che, mutuando termini politici, potremmo chiamare “dell’alternanza”: iniziamo al mattino presto con l’alternanza in bagno, alternanza alla colazione con i bambini, negli accompagnamenti, nei rientri, nel tempo di cura, nei mestieri…
E’ un interessante esercizio di crono-mutualità dei ruoli, l’essenziale è non confondersi: il rischio è di ritrovarsi entrambi incastrati sotto la doccia mentre i bambini, incustoditi e indisturbati, si lanciano i biscotti in cucina…
La “Conciliazione dell’alternanza” ha due importanti appendici:

  1. La sindacalizzazione dell’organizzazione quotidiana: a volte, io e Katia, sembriamo due tramvieri che si trovano davanti al cartellone dei nuovi turni: <<Avrei bisogno di fare il turno A, faresti cambio con il turno B, per martedì?>> <<Eh, no…il turno A vale almeno il B e il C messi assieme…>>
  2. La gestione dei carichi emotivi: ci arrabbiamo molto, litighiamo, a volte riusciamo a ridere delle arrabbiature e dei litigi stessi. Mai una volta, però, ci capita di pensare che non ne valga la pena, di fare fatica…

De-costruire ruoli maschili e femminili sedimentati in millenni di storia è difficile (forse soprattutto per gli uomini?), ma pensare che sia impossibile significa rinunciare a qualunque possibilità di conciliazione democratica. Una de-costruzione e una ri-costruzione dei ruoli è necessaria anche per re-impostare un rapporto con i propri recenti antenati: ebbene sì, anche i nostri nonni, come tanti altri, sono annoverati tra i beati e sono ormai prossimi alla santificazione. Mia madre, alcuni pomeriggi, si ritrova a dover governare un’associazione per delinquere di cinque marmocchi, i miei due più i tre di mia sorella. Mia suocera percorre, almeno una volta la settimana, quaranta chilometri (all’andata) e poi altri quaranta (al ritorno) per andare a prendere i miei figli alla scuola materna; pensare che si vendica di me solo due volte l’anno, facendomi potare i sessanta metri di siepe del suo giardino.
Sono profondamente grato a questi genitori di genitori, cerco di ricambiare come posso e quando posso ma, periodicamente, ci ricado: gioco ancora troppo il ruolo del figlio bisognoso di cure, che si vanno a sommare a quelle richieste loro dai nipotini…

Concilio con me stesso
Cerco anche di conciliare con me stesso. Indubbiamente il tempo che rimane non è molto, magari sacrifico un pranzo per andare un po’ a nuotare, o qualche ora di sonno, di tanto in tanto, per scrivere un post, leggere un libro…
E’ essenziale curare il proprio benessere, per quanto possibile: fa parte delle strategie di sopravvivenza.
E’ altrettanto essenziale essere indulgenti con le proprie possibilità: è vero, conciliare richiede sacrifici ma…curare le relazioni, concentrarsi sulla qualità, de-costruire e ricostruire ruoli, perdonarsi i propri limiti…sì, mi viene da dire che l’esperienza della conciliazione è anche un’importante e impagabile occasione di crescita personale!

…è una giornata che continuerà ancora peggio…

<<Allora…concilia?!>>, mi chiede la vigilessa.
<<Certo! Volentieri!>>, rispondo.
Lei mi guarda sospettosa e termina di compilare il verbale.
<<Stia attento: per la recidiva c’è la sospensione della patente>> m’informa consegnandomi il foglietto.
Settantaquattro euro?!
‘Azz…quando lo scoprirà mia moglie! Come farò a ri-conciliare?

NON SOLO “UN PROBLEMA DA DONNE”.

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, vogliamo ricordarci che

la conciliazione famiglia-lavoro NON è “solo” un problema “da donne”!!!!

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  • Anche se il termine “conciliazione” inizia ad essere utilizzato nel campo dei rapporti tra lavoro e famiglia, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, con esplicito riferimento alla donna*, a cui viene riferito il problema di equilibrare i vari ruoli di vita: quelli interni alla famiglia (madre e moglie) e quelli esterni (lavoratrice)..

[*Nelle versioni marxiste, la donna è il simbolo del proletario che sta di fronte al borghese, il marito-padre-padrone; mentre, in quelle meno radicali, si rivendica la possibilità per le donne di far fronte agli impegni e alle responsabilità familiari senza essere soggette a discriminazioni professionali.]

  • Anche se, a livello generalizzato, la conciliazione famiglia-lavoro è spesso considerata uno strumento per realizzare l’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna nella divisione del lavoro familiare e nel mercato del lavoro e la stessa Unione Europea utilizza questo termine per indicare le misure finalizzate a favorire l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro..
  • Anche se le statistiche mostrano come in tutta l’Europa, ma soprattutto nei paesi mediterranei, siano ancora le donne a sopportare la maggior parte delle difficoltà legate alla conciliazione tra famiglia e lavoro..
  • Anche se le disparità nella ripartizione delle responsabilità in fatto di lavori domestici, assistenza ed educazione dei figli e una scarsa valorizzazione, ideale e finanziaria, delle prestazioni tipicamente femminili rendono necessarie nuove politiche che promuovano una più equilibrata ripartizione dei compiti tra uomini e donne..
Trattare la questione della conciliazione come problema esclusivamente o prevalentemente femminile, oltre a non consentire un’effettiva equità di genere e a strutturare politiche conciliative connesse a basse prospettive di carriera per le donne, elude la sostanza del problema..

Certamente la conciliazione tra vita familiare e vita professionale

è ANCHE una questione di uguaglianza tra i sessi,

però, come mostrano gli esempi di tutti i paesi europei, quando ci si trova davanti al conflitto secco tra famiglia e lavoro, bisogna scegliere tra le soluzioni favorevoli alla famiglia e le soluzioni che mirano ad una ripartizione ugualitaria di oneri e vantaggi tra uomini e donne.

La conciliazione dovrebbe essere concepita come una QUESTIONE DI FAMIGLIA nella quale vanno coinvolti a pieno titolo donne e uomini: essa riguarda, infatti, la possibilità per i genitori-coniugi di compiere effettivamente una scelta condivisa in ordine alle esigenze e al bene dell’intero nucleo familiare.

Conciliazione, letteralmente.

Il termine “conciliazione” deriva dal latino “concilium” (cum-calare) e letteralmente significa “chiamare insieme“, nel senso di “unire” e “mettere d’accordo“.

Inizia ad essere applicato al campo della complessa relazione tra famiglia e lavoro negli anni ’60 e ’70, con esplicito riferimento alla donna e alla necessità di equilibrare i vari ruoli di vita: quelli interni alla famiglia (madre e moglie) e quelli esterni (lavoratrice), che vengono tradotti, attraverso un linguaggio di matrice economicistica, con i termini “riproduzione” e “produzione”.

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Agli inizi degli anni ’90, il temine “conciliazione” si diffonde ampiamente a livello internazionale e viene utilizzato anche nei documenti ufficiali dell’Unione Europea per tradurre l’espressione inglese work-life balance con cui, da un lato, si definisce la volontà di predisporre direttive, informative, raccomandazioni ai diversi Paesi, affinché adottino misure in grado di salvaguardare un rapporto positivo tra sfera lavorativa e vita familiare, dall’altro si sottintende l’esistenza di una sostanziale opposizione tra i due fondamentali ambiti di vita, ciascuno dei quali dotato di proprie specificità. Non a caso, infatti, il termine “conciliare” rimanda all’idea di una mediazione tra posizioni o interessi contrastanti.

Condividete questa idea di conciliazione? Vi ritrovate nell’espressione “work-life balance”? Vi siete mai sentiti come davanti ad un bivio, obbligati a scegliere tra la famiglia e il lavoro?

Raccontateci come, quando e perchè!