Conciliazione famiglia-lavoro: il punto di vista dei FIGLI.

Troppo spesso guardiamo al tema della conciliazione famiglia-lavoro considerando il punto di vista degli adulti e ignorando, invece, quello dei figli.

Figli che si sentono “orfani” e chiedono attenzioni a genitori troppo presi dal lavoro. Figli portatori di un bisogno di “relazione” che viene ridotto ad un giudizio sulla loro “prestazione” (scolastica, sportiva, …).

Proprio ieri il mio Capo mi mette sulla scrivania un articolo di giornale. Dice che gli è capitato sotto mano e ha pensato che mi potesse essere utile per la tesi e lo stage. Lo leggo velocemente: il Capo ci ha azzeccato!

E’ un articolo (bellissimo) del Prof. 2.0 Alessandro D’Avenia che parla della fatica di educare conservando uno sguardo paziente e attento ai richiami della relazione; e della fatica di diventare grandi accanto ad adulti che “non hanno tempo”.

Riporto qui la seconda parte dell’articolo e il link al pezzo completo, pubblicato su La Stampa.

P.S. Quando D’Avenia scrive “la strada da imboccare, non la soluzione (tutta da costruire strada facendo, altrimenti diventa un’altra prestazione), me la suggeriscono le tante lettere di ragazzi che ricevo..” sembra quasi di leggere un libro di Folgheraiter/Donati.. avrà studiato anche lui Sociologia in Cattolica??!!??

Una ragazza mi scrive della sua fatica a vivere a casa a motivo della separazione dei genitori: l’assenza del padre e la madre che deve barcamenarsi tra lavoro e doppio ruolo educativo l’hanno portata a diventare invisibile, c’è il corpo ma lei è altrove. A scuola nessun insegnante vede (guarda) la sua difficoltà. I voti peggiorano drasticamente, ma nessuno si chiede dove sia finita la ragazza diligente e appassionata di prima. Fino a che una professoressa, nella pienezza del suo ruolo (guardare l’allievo come soggetto e non soltanto ottenere risultati da un oggetto), le fa una domanda pertinente alla materia, ma lei, assente-presente, non risponde. L’insegnante questa volta però non demorde e aspetta il crollo del muro. In una classe attonita le due si fronteggiano in silenzio per vari minuti. La ragazza racconta che il mondo attorno era sparito, c’erano solo lei costretta a tornare in sé perché guardata e quella professoressa che la guardava, proprio al momento del fallimento della prestazione sulla domanda. La ragazza dopo un quarto d’ora di silenzio ininterrotto è scappata via in bagno, a piangere. Da lì è nato una confidenza, a tu per tu prima, a tre poi (madre, professoressa, ragazza) per affrontare la crisi insieme. Si sta riprendendo dalla sua stanchezza di vivere, tutto a partire da uno sguardo sostenuto con coraggio quasi imbarazzante, che le ha consentito di esserci in tutta la sua fragile incompletezza, che spesso è la completezza che un adolescente può permettersi.

Un ragazzo mi aveva scritto (in quanto insegnante-scrittore) di sentirsi abbandonato dai suoi genitori, benché siano vivi e gli garantiscano agi e oggetti. Si lamentava del fatto che fossero troppo presi dal lavoro e quindi di avere poco tempo per stare con lui in cose semplici come guardare una sua partita di calcio. Gli avevo suggerito di parlarne con loro, con questo risultato: «Ho provato a parlare con loro e fargli capire quali fossero i valori importanti della vita, ma niente, sono stato giudicato come viziato. Sembra assurdo anche a me, ma sono arrivato a combinare guai apposta anche solo per farmi mettere in punizione (cosa che non è mai successa) e impegnare una parte dei loro pensieri. Sono deluso perché tutto ciò che avrei voluto mi fosse insegnato da loro è ciò che dovrei insegnare io, non riconosco più in loro il ruolo di genitori! Sono orfano sebbene fisicamente esistano i miei genitori! L’unica cosa che ho imparato e che uno sguardo o un abbraccio sono in grado di annientare tutti gli oggetti che esistono e sarà la prima cosa che insegnerò ai miei figli!».

Qualche giorno fa sostavo su una spiaggia e ascoltavo il rumore del mare e di bambini che giocavano sulla battigia. In particolare intercettavo la voce di una bambina che costruiva qualcosa con le sue formine di plastica. A intervalli regolari chiedeva al padre, perso in un libro, di guardare cosa aveva fatto. Il papà la accontentava sollevando lo sguardo dalle pagine, ma ad un certo punto la piccola gli ha chiesto di andare a vedere da vicino: voleva lo sguardo del padre tutto intero. Lui si è alzato e ha ammirato le composizioni della figlia, che gliele ha illustrate una per una.

Il mio augurio a genitori e insegnanti (a me in primo luogo) quest’anno parte da questa bambina e da questo padre: avere la pazienza e il tempo di ascoltare i richiami alla relazione, senza fermarsi soltanto a giudicare la prestazione, spesso inadeguata (e da segnalare senz’altro come tale), ma andando oltre, nell’ampiezza della vita (perché non affrontare i colloqui con gli insegnanti prima che i figli ricevano i voti?). Alla bambina interessava sì ciò che aveva fatto, ma soprattutto che il papà guardasse lei. Perché tutto quello che aveva fatto esistesse veramente. Perché lei esistesse agli occhi di qualcuno non distratto. E non uno qualunque, ma qualcuno i cui occhi la riguardavano, cioè erano chiamati a guardarla ancora e ancora.

ELISABETTA. SIAMO MAMME MA SIAMO ANCHE DONNE.

Al telefono, Elisabetta ha il fiatone: “Sono sempre di corsa” si scusa affannata. “Esco dal lavoro, asilo uno, asilo due”. Un gran sospiro: “Cresceranno pure”.Siamo a Sarezzo, piccolo comune nel cuore della Val Trompia, arrampicato a 300 metri sopra il livello del mare. Al centro della bella piazza, svetta la torre campanaria edificata nel 1585 con il contributo della popolazione che volle dedicarla ai santi protettori del paese, Faustino e Giovita. Qui, in una casa affacciata sulla piazza, vive e lavora Elisabetta. L’asilo è a due passi, l’azienda, dove lavora da 20 anni, vicina alla scuola. La caotica Brescia dista 14 chilometri: al suo confronto, Sarezzo sembra un’oasi di pace. Un’illusione che Elisabetta spazza via con le prime parole che pronuncia. “La mia giornata comincia alle 6 e 30. Sistemo casa, sveglio i bambini, la colazione. Li lavo e li preparo. Alle 8 e 10 partiamo”. Simone, il più grande, 5 anni, è nato a dicembre: al momento di inserirlo all’asilo, le iscrizioni a Sarezzo sono chiuse, quindi Elisabetta deve portarlo a Lumezzane, che dista 5 km. E’ un ottimo asilo privato e prevede una riduzione della retta per fratelli. Così, quando nasce Andrea, Elisabetta pensa di portare lì anche lui, facendo un solo giro: ma nel frattempo la convenzione è stata cancellata e Andrea finisce al nido di Sarezzo. Quindi, partenza alle 8 e 10 per l’asilo di Lumezzane con i due bambini, tappa all’asilo Bonomi, ritorno a Sarezzo alle 8 e 40, nido, al lavoro alle 9. “Non mangio per fare l’orario continuato e uscire alle cinque”. La Cicogna ballerina, il nido di Sarezzo, chiude alle 17 e 30. “Se supero le otto ore, aumenta la retta”. Già, le rette: non sono uno scherzo per il bilancio di una famiglia. 400 euro il nido, che aumenta a 470 dopo le otto ore, 235 l’asilo di Simone. E poi c’è il mutuo di 700 euro al mese, le bollette, la macchina. E tutto il resto. “Esco dall’ufficio, prendo il piccolo, vado a ritirare il grande, faccio la spesa”. Poi la cena, il bagnetto dei bambini e finalmente tutti a dormire. Pronti a ricominciare la mattina dopo, cinque giorni su sette. “Il sabato si fanno i mestieri”. 

Elisabetta si diploma nel 1994, a marzo ’95 lavora già: e oggi è ancora lì, nella stessa azienda. Di mezzo, ci sono stati un fallimento, una riassunzione e, adesso, la crisi, che vuole dire cassa integrazione prima, contratto di solidarietà oggi. Quando nasce Simone, il primo, la tentazione di lasciare non c’è: “La mamma del mio compagno mi dava una mano, adesso purtroppo non c’è più”. Ride amaro, Elisabetta: “I nonni, sono loro gli ammortizzatori sociali. La mia mamma lavora, ha un negozio, il papà non può gestire un bambino di pochi mesi. Così, a dicembre, ho iniziato l’inserimento di Andrea al nido, dopo avere utilizzato tutte le ferie. Certo, sarebbe bellissimo che la maternità potesse durare di più, almeno 8, 9 mesi, come accade in altri Paesi. Ma così, chi lo paga, il mutuo?”. E allora, si porta il bambino al nido: “Lì ho visto l’avviso della Dote. Sono andata all’Asl dove, verificati i requisiti – il rientro al lavoro a tempo pieno, il bambino al nido – abbiamo compilato i moduli. Poi ho portato le fatture, è stato semplice”.

Nella provincia di Brescia, racconta Piergiorgio Guizzi, responsabile del servizio “Sviluppo Piani di zona e programmazione integrata” della Asl, al momento di progettare gli interventi di conciliazione si sono scontrati col “numero esorbitante di madri che, al termine dell’aspettativa, decidevano di dare le dimissioni e di non rientrare al lavoro. Nel 2010 si erano licenziate 795 donne”. Non è un fenomeno che riguardi soltanto la provincia di Brescia. In Lombardia, secondo dati Istat, sono circa 5000 all’anno le donne che lasciano il lavoro durante i primi 12 mesi di vita del bambino. Un campione a rischio, soprattutto in tempi che, con la crisi, aumentano la difficoltà delle donne di rientrare nel mercato del lavoro, una volta che lo hanno abbandonato. Sono tante, 800 lavoratrici che si licenziano, anche a Brescia, dove il tasso di occupazione è leggermente superiore a quello lombardo. Si tratta, raccontano le statistiche, di persone che lavorano tra commercio e servizi, in piccole e medie imprese. La maggior parte di loro ha uno o due figli. 500 di loro hanno un’età che si aggira tra i 26 e i 35 anni: di queste, 380 sono italiane, 40 vengono da un Paese europeo, 80 sono extracomunitarie. Tra le principali motivazioni registrate dalla Direzione del Lavoro, dove il lavoratore deve presentarsi per confermare le dimissioni, “la difficoltà a sostenere l’onere della retta all’asilo nido, la mancanza di nidi in zone vicine al lavoro o all’abitazione, le liste d’attesa”.
Il Piano di azione territoriale a sostegno della conciliazione famiglia-lavoro prevede che l’Asl di Brescia possa sperimentare la Dote Conciliazione – Servizi alla Persona. “Così ci siamo accordati con la Direzione del Lavoro” prosegue Guizzi “perché le donne venissero a conoscenza di un aiuto, la Dote, per evitare il licenziamento e sostenere le spese del nido”. Ai colloqui si presentano in poche, nonostante il trend del 2011 sia simile a quello dell’anno precedente, con 400 dimissioni a metà anno. “Abbiamo capito che c’erano altre motivazioni, spesso non dette, per spiegare le dimissioni dal lavoro. Molte preferivano licenziarsi e avere otto mesi di sussidio di disoccupazione, che si aggira intorno al 70,80% dello stipendio. E’ evidente che, tenendo conto solo della questione economica, le cifre percepite non erano paragonabili con i 1600 euro della Dote per otto mesi”. La seconda motivazione, più che col nido, ha a che fare con i rapporti interni all’azienda: “Non si trovavano bene, avvertivano pressioni eccessive da parte dei datori di lavoro, spesso al rientro si vedevano prospettate mansioni ed orari diversi da prima. E in famiglia, con la nascita di un bambino, emergono esigenze nuove”. Se l’obiettivo di ridurre il numero delle dimissioni viene centrato in minima parte – solo 10 su 795 accettano di tornare al lavoro -, il risultato è importante. Si verifica la necessità di intercettare le lavoratrici prima che l’orientamento all’abbandono sia consolidato, si sceglie di lavorare più a fondo sui progetti di conciliazione indirizzati alle imprese, si intensificano “i rapporti con le associazioni di categoria, ampliando il numero delle imprese che partecipano ad azioni di riorganizzazione aziendale e che attivano iniziative per i dipendenti e il territorio”. L’obiettivo è ambizioso: “Fare in modo che la Rete di conciliazione sia sempre più vasta e che le nuove aziende che entrano in campo mettano risorse per la prosecuzione dei progetti avviati”. Non è facile aggregare in una realtà come quella di Brescia, fatta di piccolissime imprese. Con la crisi che picchia, il problema della conciliazione famiglia-lavoro rischia di passare in secondo piano. “Nel 2010 sono stati attivati nuovi posti di lavoro: 66.870 per gli uomini, 41.172 per le donne. Nel contempo, però, hanno cessato il lavoro complessivamente 123.716 lavoratori, 72.795 maschi e 50.921 femmine. La quota di chi lascia – perché dà le dimissioni o viene licenziato – è superiore a quella di chi subentra. E’ un fattore che fa riflettere”.

Ma torniamo a Elisabetta, per capire in cosa consista il bisogno reale di conciliare famiglia e lavoro. Perché non si tratta soltanto dei bambini. “Ho un compagno che mi aiuta abbastanza” racconta. «Purtroppo non risiede con me perché gli è morta la mamma e ha un papà molto anziano. E quindi, o ci teniamo il nonno in casa o ci dividiamo in queste cose. Lui lavora dalle 7 alle 17, a volte 18, poi deve accudire suo padre. Cosa devo fare, dire: “No, non vai dal tuo papà?”». Per fortuna, c’è l’altro nonno, 69 anni portati bene: “Va a prendere il piccolo, mi fa la spesa, la posta, la banca. La mamma ha un negozio: quando il grande è malato, lo mando da lei che lo fa disegnare. Ma se si ammala il piccolo, devo stare a casa e bombardarlo di antibiotici per tornare in fretta al lavoro”. Elisabetta è una donna forte e determinata, ha energia da vendere. Nella sua azienda, è stata lei a studiare il contratto di solidarietà, più conveniente della cassa integrazione, e a convincere il titolare: “Tutti mi chiamano per chiedermi come ho fatto”. Però le si spezza la voce quando racconta di Andrea, di quel giorno che improvvisamente, in macchina, ha avuto le convulsioni. “L’ho portato in ospedale, pensavo che stesse morendo, invece era solo la febbre. L’altro bambino, Simone, non ha parlato per due ore. Il giorno dopo ero in ufficio”.
Al suo posto, ci tiene, Elisabetta. “Ho delle responsabilità, sono la classica impiegata storica, che sa tutto. In un’azienda di 25 persone, dato il tempo che tira, facciamo i salti mortali: siamo a personale ridotto, si fa in due o tre il lavoro che prima si faceva in quattro o cinque. Se non fossi tornata adesso al lavoro, sarei finita a fare la centralinista. D’altra parte, l’azienda deve andare avanti. E’ dura, ma ho 38 anni e mi dico che non posso tornare a fare la cavia in un altro posto, ricominciare a rispondere al telefono. La mia gavetta l’ho fatta. Cosa crede, è anche questione di orgoglio, non mollerei mai il mio lavoro”. Alcune amiche lo hanno fatto: sono tra quelle 785 che hanno ceduto allo sconforto, alla stanchezza, alla preoccupazione. “Sono rimaste a casa e adesso sono in depressione. Perché i bambini crescono. Rinunci al costo dell’asilo, poi loro vanno a scuola e tu, tutto il giorno in casa da sola, finisci dallo psicologo e prendi gli antidepressivi. Oppure vai a fare le pulizie in nero”. Quando ha saputo della Dote, lo ha detto a tutte le sue amiche, perché anche loro avessero quello che lei chiama “un attimo di sollievo, un bel respiro”. E si è beccata persino i ringraziamenti dell’Asl. «Anna (il nome è di fantasia, ndr) è impiegata come me. Mi diceva: “Come faccio?”. I suoi genitori sono morti, conta sulla suocera che però ha in casa la nonna centenaria, ha un bambino di due anni che manda al nido e una sorella che la aiuta con le pulizie. Ma non sono solo i bambini, c’è da lavare, stirare. Intanto le ho detto della Dote e l’ho mandata all’Asl. E non solo lei: l’ho detto a tutte perché poi, sa, nessuno legge gli avvisi. Pensi che quando l’ho detto a una vicina di casa, si è messa a piangere”. E’ vero, lavorare stanca, però… “Guardi, siamo mamme ma siamo anche donne. Tante se ne dimenticano, in questa fase: con i primi figli ci si annulla, i bambini sono davanti a tutto. Però, nelle ore che vivo senza di loro, ho un ruolo e mi sento importante: corro tutto il giorno ma a sera sono soddisfatta. Mi dico: oggi sono riuscita a fare qualcosa”. Ancora due o tre anni: a settembre, Simone andrà a scuola, Andrea all’asilo, sezione primavera. Già si intravvede una vita più facile. Intanto, si combatte: con i soldi, gli orari, il datore di lavoro. “Fino a tre anni, se il bambino si ammala, ci sono i permessi obbligatori. Però, certo, storcono sempre il naso. Io sono fortunata, ho un buon rapporto con l’azienda e posso fare l’orario continuato. Ho colleghe che devono svegliare i figli alle 6 e 30, partire alle 7 e 15 per essere in ufficio alle 8. Sa cosa c’è? Che spesso al lavoro parlano bene ma razzolano male: che il tuo bambino sia ammalato può dispiacere, ma alla fine è prioritario l’interesse dell’azienda. Tutti capiscono, la prima volta che capita, e magari anche la seconda. Ma alla terza, non so. Una mia amica col bambino ammalato è dovuta stare a casa 15 giorni: adesso deve lavorare anche la notte per tenersi il posto. Il marito ha un’attività in proprio che non va bene, lei non può perdere il lavoro”.
Grazie al cielo per la Dote, gli asili, e anche per le maestre: «Sabato sera ho la pizza con loro, che ci fanno trovare i bambini già con la giacca a vento: capiscono che siamo di fretta. Da quando il piccolo ha avuto le convulsioni, sono diventata una mamma apprensiva. Loro hanno capito e, quando sono al lavoro, mi arrivano i messaggi: “Ha mangiato”, “non ha la febbre”, “stai tranquilla”». La conciliazione è come un virus che rende più forti. Per Elisabetta, è diventata un modo di pensare: “Ci si aiuta, anche con la vicina di casa: oggi lo prendi te, domani io”. Anche con l’azienda: «Se sono in difficoltà a pagare i dipendenti, sono la prima a dire: “Se non hai i soldi al 15, dai la paga ai papà di famiglia, io aspetto il 18. Perché magari c’è qualcuno che non ha davvero nessuno a cui chiedere aiuto. Io sono fortunata»

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PLAYTIMER: ECCO L’APP X GENITORI OBERATI DI LAVORO DURANTE IL TEMPO LIBERO

 

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Una app per passare più tempo con i figli, senza essere interrotti da telefonate e email fuori l’orario di lavoro.

È questa l’iniziativa di Unicef Svezia, che ha lanciato PlayTimer (disponibile per ora solo per iOS) proprio per venire incontro a tutti le mamme e i papà oberati di lavoro durante il tempo libero.

Da una recente indagine condotta proprio dall’organizzazione internazionale, infatti, risulta che l’81% dei genitori svedesi riceve telefonate e email di lavoro sul cellulare, e il 43% ammette che in questo modo perde molto del tempo che passerebbe con i figli.

 

Come funziona Playtimer? Si attiva scattando una foto del bambino, e per un’ora impedisce allo smartphone di ricevere telefonate e email. Se qualcuno tocca il telefonino mentre la app è attiva, scatta un allarme che può essere bloccato solo facendo un’altra foto del piccolo. Naturalmente, non è uno strumento che blocca il cellulare in maniera completa. Si può facilmente disinserire e rimane la possibilità di fare telefonate. Lo scopo, sottolinea Unicef, è di sensibilizzare i datori di lavoro (ma anche i genitori) sull’importanza di staccare la spina e dedicare più tempo ai figli.

LEGGE 53/2000

procede il duro lavoro di stesura della tesi (ce la farò mai a finire??). in questi giorni, finito il 5° capitolo (il mio preferito!!), sono tornata indietro al 4° sulla normativa nazionale e regionale.. per cui oggi FOCUS SULLA LEGGE 53/2000 che rappresenta – ovviamente tra luci e ombre – la “quintessenza normativa” della conciliazione famiglia-lavoro.

LEGGE 53/2000 "DISPOSIZIONI PER IL SOSTEGNO DELLA MATERNITÀ E DELLA PATERNITÀ, PER IL DIRITTO ALLA CURA E ALLA FORMAZIONE E PER IL COORDINAMENTO DEI TEMPI DELLE CITTÀ"

La Legge 53/2000 ha rappresentato un punto di svolta dal punto di vista normativo e culturale: essa si pone l’obiettivo di promuovere un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediate l’istituzione dei congedi parentali, l’estensione del sostegno ai genitori di portatori disabili, la predisposizione di misure a sostegno della flessibilità di orario e di norme che dispongono il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città.
In particolare, il legislatore ha inteso rispondere alle esigenze di conciliazione famiglia-lavoro promuovendo azioni concrete articolate su tre livelli:
– sul piano culturale, favorendo un maggior coinvolgimento dei padri nella gestione familiare e incentivandoli ad utilizzare i congedi parentali per la cura dei figli;
– dal punto di vista delle politiche dei tempi delle città;
– in ambito aziendale, mobilitando aziende e parti sociali e orientandole alla sperimentazione di azioni positive per la conciliazione sul luogo di lavoro.

Riguardo quest’ultimo punto l’art. 9 stanzia contributi in favore di aziende che intendono realizzare azioni positive orientate alla conciliazione tra vita professionale e vita familiare, con l’obiettivo di introdurre nuove modalità organizzative e gestionali dei tempi di lavoro o servizi capaci di qualificare l’azienda come family friendly. Si tratta di un supporto per l’introduzione di forme di flessibilità della prestazione lavorativa, di programmi di formazione per il reinserimento delle lavoratrici e dei lavoratori dopo il periodo di congedo, di progetti per la sostituzione del titolare d’impresa al fine di favorire l’equilibrio tra il tempo di vita e di lavoro. Beneficiari di questi interventi possono essere i dipendenti di aziende private, ASL e aziende ospedaliere, ma anche gli imprenditori e i lavoratori autonomi.

La Legge finanziaria per il 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296) ha arricchito l’elenco contenuto nella versione originale dell’art. 9, stabilendo la possibilità di ottenere finanziamenti per:
 progetti che consentano ai genitori che lavorano di usufruire di particolari forme di flessibilità negli orari e nell’organizzazione del lavoro , con priorità agli aventi figli fino ai 12 anni di età (o 15 anni di età in caso di affidamento o adozione);
 percorsi formativi per il reinserimento in azienda dei lavoratori dopo un periodo di congedo superiore a 60 giorni;
 progetti che consentono la sostituzione del titolare d’impresa o del lavoratore autonomo con altro imprenditore o lavoratore autonomo, in periodi corrispondenti a quelli di astensione obbligatoria o di congedo parentale;
 interventi e azioni volti a qualificare l’azienda come luogo di promozione di forme di conciliazione e a favorire la sostituzione, il reinserimento, l’articolazione della prestazione lavorativa e la formazione dei lavoratori con figli minori e disabili o anziani non autosufficienti a carico.

Una ulteriore modifica alla L. 53/2000 è stata apportata dall’articolo 38 della Legge 18 giugno 2009, n. 69 che ne ha riformulato l’articolo 9 per renderlo più rispondente alle esigenze manifestate dall’utenza. Sono state introdotte modifiche relative a: nomenclatura delle azioni progettuali; soggetti proponenti; condizioni di accesso alle misure previste da parte dei destinatari finali delle stesse; introduzione di sistemi innovativi per la valutazione dei risultati; estensione delle tipologie di azione volte a favorire il reinserimento dei lavoratori dopo un periodo di congedo; introduzione di servizi innovativi e reti territoriali; possibilità per i soggetti autonomi di finanziare una collaborazione. Tali modifiche ampliano sostanzialmente la platea dei destinatari e le tipologie di azioni ammissibili.

Working Families Summit

Il 23 giugno si è svolto a Washington il Working Families Summit, un grande evento sul tema della conciliazione organizzato dal White House Council on Women and Girls, dal Dipartimento del Lavoro e dal Center for American Progress (CAP) per individuare strategie di policy con cui riformare il mondo del lavoro adeguandolo alle esigenze della società contemporanea.

Politici, imprenditori, sindacalisti, studiosi, associazioni e cittadini si sono incontrati per discutere di soluzioni che possano migliorare la vita dei genitori lavoratori e incrementare di riflesso la competitività dell’economia americana nei prossimi decenni.

Ecco quindi qualche spunto di riflessione che può essere adattato al nostro contesto.

 

Una questione di genere?

Anche negli Stati Uniti il lavoro sta diventando sempre più centrale nella vita delle donne, che rappresentano oggi il 47%, ovvero quasi la metà, della forza lavoro totale e il 49,4 % dei redditi americani. Le donne sono diventate il principale breadwinner nel 41% delle famiglie e co-breadwinner nel 23% per cui una variazione del loro stipendio può avere ripercussioni sulla sicurezza economica familiare.

Ciò nonostante, molti ambienti di lavoro non si sono adeguati ai tempi e troppe donne guadagnano ancora molto meno rispetto ai colleghi uomini o si scontrano con barriere ineguali negli avanzamenti di carriera: detengono solo il 4,6% dei vertici e il 16,9% dei consigli di amministrazione nella lista delle aziende di Fortune 500 e il 17% delle posizioni senior di tutto il Paese.

 

Conciliazione e flessibilità

La prima via per supportare le famiglie che lavorano viene identificata nella flessibilità, così poco diffusa da essere definita una “vincita alla lotteria”. Che si tratti di orario flessibile, di telelavoro o di un’agenda flessibile, queste politiche aiutano lavoratrici e lavoratori a organizzare meglio i propri tempi, riducono l’assenteismo e aumentano la produttività. Lo dimostrano diversi studi: la produttività negli anni a venire non si conseguirà aumentando le ore di lavoro, ma migliorando i rendimenti dei lavoratori.

Il tema della flessibilità è particolarmente importante in un paese dove molti lavoratori (e il 70% dei lavoratori low-wage) non hanno accesso a permessi retribuiti e assentarsi dal lavoro significa perdere parte dello stipendio. Gli Stati Uniti rimangono la sola nazione industrializzata a non prevedere il congedo di maternità retribuito, e la sola economia avanzata che non garantisce il diritto all’indennità di malattia. L’accesso a questi diritti è ancora fortemente dipendente dal tipo di lavoro, penalizzando le mansioni poco qualificate, e dal settore di impiego (ad esempio, nel settore della ristorazione più del 70% non ha accesso alle indennità di malattia).

Pe questo motivo si stanno cercando strategie per garantire ai lavoratori permessi retribuiti (per motivi familiari, cure mediche o per malattia); Il Dipartimento del Lavoro ha annunciato nuove ricerche e nuovi finanziamenti per supportare gli Stati nell’istituzione di Paid Leave Programs statali, sulla scia dei casi di successo come New Jersey e California (Stati che hanno implementato un programma di assicurazione per Paid Family Leavefinanziato dai lavoratori attraverso piccoli contributi in busta paga che in cambio copre una parte di stipendio fino a sei settimane quando questi si assentano per motivi familiari) e del Telework Enhancement Act del 2010, che promuove il telelavoro nelle agenzie federali statunitensi.

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Le esigenze di caregiving

Nonostante gli Stati Uniti non abbiano un welfare tradizionalmente familistico come quello italiano, anche qui la cura dei familiari costituisce un nodo importante, scaricandosi spesso sulla figura femminile. Negli ultimi quarant’anni si è assistito a un profondo cambiamento delle strutture familiari: nel 1970 milioni di famiglie potevano contare su un caregiver familiare full time – generalmente una donna -, mentre oggi in 3 famiglie su 5 entrambi i genitori lavorano.

La non disponibilità di personale o di strutture per la cura dei bambini a costi accessibili – solo il 69% dei bambini di 4 anni frequenta una scuola per l’infanzia e come ha ricordato Barak Obama, in 31 Stati una childcare dignitosa è più costosa della retta del college – ha implicazioni negative perché limita le possibilità di cercare e ottenere un lavoro.

Anche per gli anziani è urgente perseguire una long term caresostenibile e di qualità, soprattutto per le donne, che in media vivono più a lungo ma hanno meno risorse economiche (consideriamo tra l’altro che il sistema pensionistico è meno generoso di quello italiano).

Il problema tenderà ad aggravarsi soprattutto per la cosiddetta “sandwich generation”, schiacciata tra la cura contemporanea di bambini piccoli e genitori anziani. La questione si pone non solo in termini di quantità, ma anche di qualità.

Molto interessante in proposito è l’esperienza di care.com, un portale che funge da raccordo tra domanda e offerta di caregiving, proponendo soluzioni che vanno dalla cura del bambino a quella dell’anziano a quella della casa, con specializzazioni (dall’Alzheimer alla fisioterapia) e esigenze (dai trasporti alle pulizie e in generale allo svolgimento di commissioni) diversificate. Un modello, secondo la fondatrice Sheila Marcelo, che consente di professionalizzare il caregiving, mettendo a disposizione personale qualificato e affidabile, oltre che di legalizzare questo tipo di attività, spesso sotto-retribuite, prevedendo un salario almeno pari al salario minimo.

 

Stipendi ineguali e working poor

Gli Stati Uniti – come del resto molti paesi europei, tra cui l’Italia – hanno sempre più working poor, cioè persone che pur lavorando non riescono a guadagnare abbastanza da garantire a sé e alla propria famiglia la sicurezza economica.

Le donne guadagnano poco rispetto agli uomini, circa 6.250 dollari in meno l’anno. Per ogni dollaro che guadagna un uomo bianco non ispanico, una donna guadagna in media 77 centesimi, rapporto che si abbassa a 64 centesimi per le donne afroamericane e 54 centesimi per le ispaniche. Si stima quindi che equiparando il salario medio maschile e femminile, il tasso di povertà delle famiglie di queste lavoratrici scenderebbe dall’8.1% al 3.9%.

Si tratta di un argomento che si inserisce nel dibattito in corso in questo periodo – ripreso più volte anche nel corso della giornata – sull’innalzamento del salario minimo federale dagli attuali 7,25$ a 10,10$, che diventerebbe allora particolarmente importante per le donne. Rappresentando queste (e soprattutto quelle di colore) quasi i 2/3 dei lavoratori sottopagati, alzare il salario minimo comporterebbe direttamente un impatto importante per colmare il gender gap.

 

Le reti

Fondamentale appare la costruzione di reti e la collaborazione tra tutti gli attori sociali e le comunità, come ribadito dal Vice Presidente Joe Biden, che ha portato l’esempio del lavoro che i club e le varie associazioni come le YMCA svolgono nella cura dei bambini e dei giovani ragazzi dopo la scuola. Ma è importante anche la collaborazione tra gli stessi lavoratori e la costruzione di reti tra le stesse aziende, come ha testimoniato Makini Howell, leader della Main Street Alliance, un network che riunisce le piccole imprese locali per promuove politiche pubbliche dal basso, socialmente responsabili e sostenibili.

 

Diffondere una nuova cultura

Infine, è necessario promuovere un radicale cambiamento culturale. Un ambiente “family friendly” non è solo il frutto di politiche adeguate, ma anche di una mentalità che invece si scontra ancora troppo spesso con resistenze culturali, soprattutto in un modello economico come quello statunitense. Concetti consolidati come che cosa costituisce “lavorare duro”, quanto tempo deve essere speso in ufficio, o la divisione dei ruoli, possono influenzare il giudizio sui lavoratori nel posto di lavoro. Gli stereotipi di genere, ad esempio, trattengono molti uomini dall’usufruire dei permessi di cui potrebbero già disporre per la cura dei figli.

 

Riferimenti

Il sito internet del Working Families Summit

Working Families National Toolkit

Employment status of women by presence and age of youngest child, March 1975–2010

FLESSIBILITA’: IMPORTANTE NON SOLO PER LE DONNE.

 

con l’arrivo dei volantini mi sono accorta di aver trascurato il blog!! per cui eccomi qui a proporvi la lettura di un articolo pubblicato su WOW!

Jessica Rohman, Manager, Program Content presso Great Place to Work intervista Carla Greenan Executive Coach con oltre 20 anni di esperienza presso Ernst & Young LLP. La flessibilità è importante non solo per le donne.

 

 

CONGEDI PARENTALI: EFFETTI AMBIVALENTI.

ll congedo di maternità e il congedo parentale costituiscono un’importante forma di sostegno alle famiglie. Il loro scopo è non solo quello di favorire il benessere della madre e del bambino, ma anche quello di aiutare a conciliare lavoro e vita familiare (Jaumotte, 2003).

Il fervore che ha accompagnato la diffusione dei congedi parentali non deve però nasconderne i possibili effetti ambivalenti!!!

Se da un lato i sostenitori di congedi prolungati ritengono che questi abbiano effetti positivi sulla salute dei figli e migliorino la posizione occupazionale delle donne, altri autori ritengono che, limitando lo scambio volontario tra lavoratori e datori di lavoro, si riduca l’efficienza economica e si realizzi un ulteriore svantaggio per le donne. In tutti i Paesi europei, infatti, i periodi di congedo vengono utilizzati soprattutto dalle madri e questo ricorso fortemente sessuato contribuisce spesso al mantenimento di disuguaglianze e discriminazioni sessuali sul mercato del lavoro. Una lunga interruzione dell’attività professionale, anche se accompagnata da una garanzia di rientro, può rilevarsi penalizzante per la carriera delle donne e compromettere le loro possibilità di promozione.

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E’ POSSIBILE VERIFICARE EMPIRICAMENTE L’EFFICACIA DI QUESTE MISURE DI CONCILIAZIONE??

A livello teorico, congedi di maternità troppo lunghi potrebbero avere ripercussioni negative sull’occupazione e sulle carriere femminili. L’obbligo di preservare il posto di lavoro in favore della dipendente in maternità potrebbe diventare oneroso per il datore di lavoro, se protratto troppo nel tempo. Quest’ultimo, infatti, dovrebbe trovare un sostituto adeguato e al termine del congedo essere obbligato a reintegrare la madre che nel frattempo potrebbe aver perso aggiornamento. Questo costo rischia di tradursi in una riduzione dello stipendio della dipendente. Qualora poi il datore di lavoro non potesse discriminare la dipendente a livello salariale, potrebbe preferire – al momento dell’assunzione – un candidato maschio, soprattutto per le posizioni di responsabilità.

A livello empirico, però, gli studi non sostengono in maniera univoca queste ipotesi. Ruhm (1998) conduce un’analisi empirica su 9 stati europei e conclude che i congedi parentali sono positivamente correlati con l’occupazione femminile, ma negativamente con i salari. Lo stesso effetto negativo sui salari femminili era stato riscontrato da Gruber (1994) in uno studio condotto subito dopo l’introduzione del congedo di maternità obbligatorio in alcuni stati americani; Gruber comunque ne enfatizzava l’efficienza in quanto non aveva ridotto l’occupazione femminile, né si era tradotto in un aumento del costo del lavoro.

Altri studi evidenziano un limite massimo di tempo oltre il quale gli effetti del congedo parentale diventano negativi sia in termini di (mancato) rientro nel mercato del lavoro, che in termini di salari e evidenziano il deterioramento del capitale umano dopo un protratto periodo di assenza. Edin e Gustavsson (2001) analizzano tale relazione in un campione di adulti svedesi osservati per più anni e evidenziano la relazione negativa fra capacità cognitive dei soggetti e assenza dal mercato del lavoro per almeno 12 mesi.

In uno studio su un campione di madri lavoratrici tedesche, Ondrich et al. (2003) trovano delle prove indirette secondo cui incentivare le madri a occuparsi dei propri neonati ha come possibile conseguenza una riduzione della continuità del lavoro e dell’accumulo di capitale umano. Gli autori mostrano infatti che la possibilità per le madri di tornare al lavoro decresce all’aumentare della durata del congedo di maternità. L’effetto appare più forte per le lavoratrici part-time, in quanto più facilmente sostituibili di una lavoratrice full-time.

Al contrario, lo studio comparato di Pronzato sull’estensione del congedo parentale facoltativo in vari paesi Europei trova una correlazione positiva fra prolungato congedo parentale e probabilità che la madre rientri nel mercato del lavoro. Nel modello di Pronzato, la scelta di partecipazione al mercato del lavoro da parte della donna è vista in un contesto di scelte familiari e dipende dal consumo dell’intera famiglia, dal reddito del marito (se in coppia), dal proprio reddito e dalla propria produttività domestica che varia al variare dell’età dei figli. Una volta scaduto il tempo di congedo, la donna deciderà o meno se rientrare nel mercato del lavoro a seconda dell’offerta salariale che riceve e rientrerà solo se, in un’ottica di lungo periodo, lo riterrà conveniente. La probabilità di riprendere a lavorare dopo il congedo obbligatorio è più alta per le donne con alti livelli d’istruzione, per le quali il costo opportunità di restare fuori è maggiore, soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale dove le politiche sociali sono meno generose. Al contrario l’effetto di un più elevato reddito familiare è negativo, ma non molto significativo in alcune nazioni (Pronzato, 2009).

LA CURA NON HA ETA’ – Convegno 7 aprile 2014 – Sala delle Colonne BPM

Lunedì scorso (7 aprile) ho partecipato ad un convegno intitolato

“La cura non ha età – La conciliazione familiare per vivere intensamente tutte le fasi della vita” 

organizzato da AUSER LOMBARDIA e ASSOCIAZIONE PARI E DISPARI presso la Sala delle Colonne di BPM a Milano.

UNA MATTINATA DI FERIE SPESA BENE!

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Dopo l’introduzione di LELLA BRAMBILLA (Presidente Auser Regionale Lombardia), ELISABETTA DONATI (Università degli Studi di Torino, Associazione Pari e Dispari) ha aperto i lavori con il suo intervento intitolato “Le domande di cura nella fase più matura: non solo famiglia e lavoro”. La Donati ha tracciato un quadro sintetico ma preciso dei cambiamenti demografici, sociali e culturali in atto: l’invecchiamento delle parentele che fa emergere nuove domande di cura; il maggiore impegno delle donne nell’ambito lavorativo che si somma alle responsabilità familiari e di cura (80% del lavoro di cura in Italia è svolto dalle donne); l’instabilità coniugale che rompe le reti di solidarietà; l’aumento di persone colpite da disabilità non dovute all’età. Ha poi sottolineato come le strategie europee, che vedono nella maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro la soluzione ai problemi della povertà e dell’invecchiamento della popolazione, si stiano rivelando di fatto poco efficaci perchè:

  1. non favoriscono la partecipazione maschile alla cura;
  2. non considerano la “crisi delle reti informali” che fa riferimento principalmente alle cosiddette “nonne sandwich”, schiacciate tra genitori e nipoti;
  3. considerano la conciliazione (e la cura all’interno della famiglia) come un fatto esclusivamente privato;
  4. riferiscono i problemi di conciliazione quasi esclusivamente alle prime fasi del ciclo di vita familiare e alla genitorialità.

Molto interessante anche l’intervento di CAROLINA PELLEGRINI (Consigliera di Parità Regione Lombardia), la quale ha sottolineato, in maniera concisa, gli aspetti cruciali della relazione famiglia-lavoro, che possiamo così riassumere:

  • la conciliazione NON è solo una questione di figli;
  • la conciliazione NON è solo una questione genere;
  • la conciliazione NON è solo tutela di diritti: è in gioco il benessere dei lavoratori e delle aziende;
  • la conciliazione è UNA SFIDA che, data la pluralita di stakeholders, non possiamo non affrontare in maniera integrata.

Dopo un coffee break che ha seriamente messo in difficoltà il mio regime alimentare di dieta (quando mai non succede???), i lavori sono ripresi con una Tavola rotonda a cui sono intervenuti GIOVANNI D’AVERIO (Direttore Generale Assessorato Famiglia,
Solidarietà Sociale e Volontariato Regione Lombardia), STEFANO LANDINI (Rappresentante Segreteria dello SPI-CGIL Lombardia), ENZO COSTA (Presidente Auser Nazionale), RAFFAELLA MAIONI (Presidente Acli Colf Nazionale), ELIO POZZI (Direttore Bormioli Luigi Spa) ed ELENA LATTUADA (Segreteria CGIL Nazionale).

Di questi brevi interventi riporto qui solo alcuni concetti sparsi e spunti di riflessione:

  • la necessità di POLITICHE INTEGRATE e di PROGETTI CONCRETI, siglati con un’alleanza territoriale;
  • il rischio (da contrastare!) che, con la diminuzione delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile, si arrivi ad una ROTTURA INTERGENERAZIONALE;
  • l’importanza di RIPENSARE IL WELFARE IN TERMINI FAMILIARI, e non solo femminili o individuali;
  • il problema della DISOCCUPAZIONE, ovvero: parlare di conciliazione famiglia-lavoro è un lusso in tempi di crisi economica?;
  • il tema della FLESSIBILITA’ richiesta oggi dal mondo del lavoro.

link agli atti del convegno

CONGEDI DI PATERNITA’

Il congedo di paternità è riconosciuto quando si verificano determinati eventi riguardanti la madre del bambino, a prescindere dal fatto che la stessa sia lavoratrice o non lavoratrice.

Il congedo di paternità spetta in caso di:

  • morte o grave infermità della madre,
  • abbandono del figlio da parte della madre o mancato riconoscimento del neonato,
  • affidamento esclusivo del figlio al padre (art. 155 bis cod. civ.),
  • rinuncia totale o parziale della madre lavoratrice al congedo di maternità spettante in caso di adozione o affidamento di minori.

La durata del congedo di paternità, che decorre dalla data in cui si verifica uno degli eventi suindicati, è pari al periodo di congedo di maternità non fruito dalla lavoratrice madre; invece, in caso di madre non lavoratrice, il congedo di paternità termina al terzo mese dopo il parto. In caso di parto prematuro con ricovero del neonato in una struttura ospedaliera, il congedo di paternità può essere differito, in tutto o in parte, alla data di ingresso del bambino nella casa familiare.

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La legge 28 giugno 2012, n.92 ha introdotto, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, alcune misure a sostegno della genitorialità che riguardano l’astensione del padre lavoratore. Questi, quando è un lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno, percependo un’indennità pari al 100% della retribuzione. Tale diritto si configura come un diritto autonomo rispetto a quello della madre e può essere fruito anche durante il periodo di astensione obbligatoria post partum della stessa. Il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, può astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. Anche in questo caso, al padre è riconosciuta un’indennità pari al 100% della retribuzione in relazione al periodo di astensione.

CONCILIAZIONE SOTTO IL LETTO!

Nella giornata dedicata a S.Giuseppe e a tutti i papà, vi raccontiamo l'esperienza di un neo-genitore alle prese con orari e responsabilità lavorative a volte "non troppo concilianti"..

Non sono un esperto dell’argomento “conciliazione famiglia e lavoro”, anzi, tutto il contrario, però quando mi hanno spiegato di cosa si tratta, subito mi è venuto in mente il mitico film del 1968 “Appuntamento sotto il letto!“.. anche se in quel caso la conciliazione era tra famiglia e famiglia. Lei, infermiera, vedova con otto figli, sposa lui, ufficiale di marina, vedovo, con dieci figli generando una miriade di equivoci, litigi, contestazioni, fraintendimenti e relative situazioni, per l’appunto, di conciliazione tra le due realtà, per cui l’unico momento in cui i due si ritrovano come coppia è a fine giornata (lavorativa e famigliare).

Io e mia moglie, di bambino, per ora, ne abbiamo uno solo, ma anche noi ci troviamo a vivere, come coppia, poche decine di minuti prima di andare a dormire: e il merito, diversamente dal film, è del lavoro, che, almeno nel mio caso, non concilia molto con l’idea standard di famiglia!E, strano a credersi, io lavoro proprio per una famiglia (anche se non è proprio standard)!

Lavoro in una di quelle grandi case che assomigliano più ad un albergo: ospiti importanti che vanno e vengono, eventi da allestire, riunioni di lavoro da preparare, il personale da organizzare, fornitori da contattare … insomma, un lavoro molto variegato ma che necessita inevitabilmente della mia presenza costante. E infatti la mia giornata lavorativa classica inizia alle 9 e finisce dopo cena, con qualche pausa in mezzo, se riesco a ritagliarmela. Con un orario così, uno dove la mette la famiglia? Sotto il letto?

Il problema di inconciliabilità tra famiglia e lavoro, nel mio caso, sta tutto concentrato nell’orario molto lungo della giornata lavorativa e nel fatto che sul luogo di lavoro la mia figura professionale non è facilmente sostituibile: per assentarmi devo  organizzare con largo anticipo tutte le attività in modo che gli altri, che hanno compiti totalmente diversi e quasi mai tempo, possano coprire a turno lo stretto indispensabile, oppure, se proprio necessario, recuperare del personale esterno.

Lavoro in questa casa da 4 anni e mi sono assentato solo 3 volte per motivi che non fossero strettamente legati alla mia salute ma che assomigliano più a questioni familiari: 2 settimane per il congedo matrimoniale (prolungato di una settimana per un’infezione contratta nel viaggio di nozze), 2 settimane quando è nato mio figlio (che tra l’altro coincidevano con le vacanze di Natale) e 2 giorni quando mia moglie ha avuto un principio di mastite durante l’allattamento. Per il resto, faccio coincidere tutto quello che serve per la mia casa e la mia famiglia con i miei giorni liberi e con le vacanze.Fino ad ora è sempre andata bene così, anche perché mia moglie ha un lavoro molto meno impegnativo in termini di orario e riesce a gestire il bambino coadiuvata dalle nonne.

 L’aspetto più pesante di tutta la faccenda è il vedersi davvero con il contagocce: probabilmente se il mio lavoro non mi piacesse o se non fosse necessario lavorare per vivere, opterei per un altro tipo di impiego!Il sacrificio che mi costa maggiormente è quello, nei giorni lavorativi, di vedere mio figlio solo per metterlo a letto, se arrivo a casa abbastanza “presto”.

Quanto detto finora  vale certamente per l’ordinario: la giornata lunga, il finire di lavorare dopocena, la presenza necessaria … sono tutti aspetti che, se ne avessi bisogno per una emergenza, verrebbero messi in secondo piano. Ma questo, probabilmente, vale per ogni tipo di impiego e non rientra nello spinoso tema della conciliazione. La mia fortuna professionale  è che, lavorando in casa, sono diventato col tempo “uno di casa”i miei datori di lavoro si sono sempre dimostrati gentili e disponibili per qualsiasi tipo di problema: da me il buonsenso funziona bene anche senza l’intervento di una eventuale normativa, e di questa cosa ne godiamo tutti, sia io, sia i datori di lavoro, sia il resto del personale.

Mi chiedo abbastanza spesso se il mio orario possa essere modificabile per dare più spazio al mio essere marito e padre, ma per il lavoro che faccio non vedo molte alternative: non posso non incaricarmi di certe responsabilità o certe procedure che avvengono in determinati orari! Non a caso, infatti, di solito chi ricopre il mio ruolo in altre realtà è domiciliato presso la stessa residenza per far fronte in tempo reale a qualsiasi tipo di esigenza, e spesso e volentieri è un single.