Al telefono, Elisabetta ha il fiatone: “Sono sempre di corsa” si scusa affannata. “Esco dal lavoro, asilo uno, asilo due”. Un gran sospiro: “Cresceranno pure”.Siamo a Sarezzo, piccolo comune nel cuore della Val Trompia, arrampicato a 300 metri sopra il livello del mare. Al centro della bella piazza, svetta la torre campanaria edificata nel 1585 con il contributo della popolazione che volle dedicarla ai santi protettori del paese, Faustino e Giovita. Qui, in una casa affacciata sulla piazza, vive e lavora Elisabetta. L’asilo è a due passi, l’azienda, dove lavora da 20 anni, vicina alla scuola. La caotica Brescia dista 14 chilometri: al suo confronto, Sarezzo sembra un’oasi di pace. Un’illusione che Elisabetta spazza via con le prime parole che pronuncia. “La mia giornata comincia alle 6 e 30. Sistemo casa, sveglio i bambini, la colazione. Li lavo e li preparo. Alle 8 e 10 partiamo”. Simone, il più grande, 5 anni, è nato a dicembre: al momento di inserirlo all’asilo, le iscrizioni a Sarezzo sono chiuse, quindi Elisabetta deve portarlo a Lumezzane, che dista 5 km. E’ un ottimo asilo privato e prevede una riduzione della retta per fratelli. Così, quando nasce Andrea, Elisabetta pensa di portare lì anche lui, facendo un solo giro: ma nel frattempo la convenzione è stata cancellata e Andrea finisce al nido di Sarezzo. Quindi, partenza alle 8 e 10 per l’asilo di Lumezzane con i due bambini, tappa all’asilo Bonomi, ritorno a Sarezzo alle 8 e 40, nido, al lavoro alle 9. “Non mangio per fare l’orario continuato e uscire alle cinque”. La Cicogna ballerina, il nido di Sarezzo, chiude alle 17 e 30. “Se supero le otto ore, aumenta la retta”. Già, le rette: non sono uno scherzo per il bilancio di una famiglia. 400 euro il nido, che aumenta a 470 dopo le otto ore, 235 l’asilo di Simone. E poi c’è il mutuo di 700 euro al mese, le bollette, la macchina. E tutto il resto. “Esco dall’ufficio, prendo il piccolo, vado a ritirare il grande, faccio la spesa”. Poi la cena, il bagnetto dei bambini e finalmente tutti a dormire. Pronti a ricominciare la mattina dopo, cinque giorni su sette. “Il sabato si fanno i mestieri”.
Elisabetta si diploma nel 1994, a marzo ’95 lavora già: e oggi è ancora lì, nella stessa azienda. Di mezzo, ci sono stati un fallimento, una riassunzione e, adesso, la crisi, che vuole dire cassa integrazione prima, contratto di solidarietà oggi. Quando nasce Simone, il primo, la tentazione di lasciare non c’è: “La mamma del mio compagno mi dava una mano, adesso purtroppo non c’è più”. Ride amaro, Elisabetta: “I nonni, sono loro gli ammortizzatori sociali. La mia mamma lavora, ha un negozio, il papà non può gestire un bambino di pochi mesi. Così, a dicembre, ho iniziato l’inserimento di Andrea al nido, dopo avere utilizzato tutte le ferie. Certo, sarebbe bellissimo che la maternità potesse durare di più, almeno 8, 9 mesi, come accade in altri Paesi. Ma così, chi lo paga, il mutuo?”. E allora, si porta il bambino al nido: “Lì ho visto l’avviso della Dote. Sono andata all’Asl dove, verificati i requisiti – il rientro al lavoro a tempo pieno, il bambino al nido – abbiamo compilato i moduli. Poi ho portato le fatture, è stato semplice”.
Nella provincia di Brescia, racconta Piergiorgio Guizzi, responsabile del servizio “Sviluppo Piani di zona e programmazione integrata” della Asl, al momento di progettare gli interventi di conciliazione si sono scontrati col “numero esorbitante di madri che, al termine dell’aspettativa, decidevano di dare le dimissioni e di non rientrare al lavoro. Nel 2010 si erano licenziate 795 donne”. Non è un fenomeno che riguardi soltanto la provincia di Brescia. In Lombardia, secondo dati Istat, sono circa 5000 all’anno le donne che lasciano il lavoro durante i primi 12 mesi di vita del bambino. Un campione a rischio, soprattutto in tempi che, con la crisi, aumentano la difficoltà delle donne di rientrare nel mercato del lavoro, una volta che lo hanno abbandonato. Sono tante, 800 lavoratrici che si licenziano, anche a Brescia, dove il tasso di occupazione è leggermente superiore a quello lombardo. Si tratta, raccontano le statistiche, di persone che lavorano tra commercio e servizi, in piccole e medie imprese. La maggior parte di loro ha uno o due figli. 500 di loro hanno un’età che si aggira tra i 26 e i 35 anni: di queste, 380 sono italiane, 40 vengono da un Paese europeo, 80 sono extracomunitarie. Tra le principali motivazioni registrate dalla Direzione del Lavoro, dove il lavoratore deve presentarsi per confermare le dimissioni, “la difficoltà a sostenere l’onere della retta all’asilo nido, la mancanza di nidi in zone vicine al lavoro o all’abitazione, le liste d’attesa”.
Il Piano di azione territoriale a sostegno della conciliazione famiglia-lavoro prevede che l’Asl di Brescia possa sperimentare la Dote Conciliazione – Servizi alla Persona. “Così ci siamo accordati con la Direzione del Lavoro” prosegue Guizzi “perché le donne venissero a conoscenza di un aiuto, la Dote, per evitare il licenziamento e sostenere le spese del nido”. Ai colloqui si presentano in poche, nonostante il trend del 2011 sia simile a quello dell’anno precedente, con 400 dimissioni a metà anno. “Abbiamo capito che c’erano altre motivazioni, spesso non dette, per spiegare le dimissioni dal lavoro. Molte preferivano licenziarsi e avere otto mesi di sussidio di disoccupazione, che si aggira intorno al 70,80% dello stipendio. E’ evidente che, tenendo conto solo della questione economica, le cifre percepite non erano paragonabili con i 1600 euro della Dote per otto mesi”. La seconda motivazione, più che col nido, ha a che fare con i rapporti interni all’azienda: “Non si trovavano bene, avvertivano pressioni eccessive da parte dei datori di lavoro, spesso al rientro si vedevano prospettate mansioni ed orari diversi da prima. E in famiglia, con la nascita di un bambino, emergono esigenze nuove”. Se l’obiettivo di ridurre il numero delle dimissioni viene centrato in minima parte – solo 10 su 795 accettano di tornare al lavoro -, il risultato è importante. Si verifica la necessità di intercettare le lavoratrici prima che l’orientamento all’abbandono sia consolidato, si sceglie di lavorare più a fondo sui progetti di conciliazione indirizzati alle imprese, si intensificano “i rapporti con le associazioni di categoria, ampliando il numero delle imprese che partecipano ad azioni di riorganizzazione aziendale e che attivano iniziative per i dipendenti e il territorio”. L’obiettivo è ambizioso: “Fare in modo che la Rete di conciliazione sia sempre più vasta e che le nuove aziende che entrano in campo mettano risorse per la prosecuzione dei progetti avviati”. Non è facile aggregare in una realtà come quella di Brescia, fatta di piccolissime imprese. Con la crisi che picchia, il problema della conciliazione famiglia-lavoro rischia di passare in secondo piano. “Nel 2010 sono stati attivati nuovi posti di lavoro: 66.870 per gli uomini, 41.172 per le donne. Nel contempo, però, hanno cessato il lavoro complessivamente 123.716 lavoratori, 72.795 maschi e 50.921 femmine. La quota di chi lascia – perché dà le dimissioni o viene licenziato – è superiore a quella di chi subentra. E’ un fattore che fa riflettere”.
Ma torniamo a Elisabetta, per capire in cosa consista il bisogno reale di conciliare famiglia e lavoro. Perché non si tratta soltanto dei bambini. “Ho un compagno che mi aiuta abbastanza” racconta. «Purtroppo non risiede con me perché gli è morta la mamma e ha un papà molto anziano. E quindi, o ci teniamo il nonno in casa o ci dividiamo in queste cose. Lui lavora dalle 7 alle 17, a volte 18, poi deve accudire suo padre. Cosa devo fare, dire: “No, non vai dal tuo papà?”». Per fortuna, c’è l’altro nonno, 69 anni portati bene: “Va a prendere il piccolo, mi fa la spesa, la posta, la banca. La mamma ha un negozio: quando il grande è malato, lo mando da lei che lo fa disegnare. Ma se si ammala il piccolo, devo stare a casa e bombardarlo di antibiotici per tornare in fretta al lavoro”. Elisabetta è una donna forte e determinata, ha energia da vendere. Nella sua azienda, è stata lei a studiare il contratto di solidarietà, più conveniente della cassa integrazione, e a convincere il titolare: “Tutti mi chiamano per chiedermi come ho fatto”. Però le si spezza la voce quando racconta di Andrea, di quel giorno che improvvisamente, in macchina, ha avuto le convulsioni. “L’ho portato in ospedale, pensavo che stesse morendo, invece era solo la febbre. L’altro bambino, Simone, non ha parlato per due ore. Il giorno dopo ero in ufficio”.
Al suo posto, ci tiene, Elisabetta. “Ho delle responsabilità, sono la classica impiegata storica, che sa tutto. In un’azienda di 25 persone, dato il tempo che tira, facciamo i salti mortali: siamo a personale ridotto, si fa in due o tre il lavoro che prima si faceva in quattro o cinque. Se non fossi tornata adesso al lavoro, sarei finita a fare la centralinista. D’altra parte, l’azienda deve andare avanti. E’ dura, ma ho 38 anni e mi dico che non posso tornare a fare la cavia in un altro posto, ricominciare a rispondere al telefono. La mia gavetta l’ho fatta. Cosa crede, è anche questione di orgoglio, non mollerei mai il mio lavoro”. Alcune amiche lo hanno fatto: sono tra quelle 785 che hanno ceduto allo sconforto, alla stanchezza, alla preoccupazione. “Sono rimaste a casa e adesso sono in depressione. Perché i bambini crescono. Rinunci al costo dell’asilo, poi loro vanno a scuola e tu, tutto il giorno in casa da sola, finisci dallo psicologo e prendi gli antidepressivi. Oppure vai a fare le pulizie in nero”. Quando ha saputo della Dote, lo ha detto a tutte le sue amiche, perché anche loro avessero quello che lei chiama “un attimo di sollievo, un bel respiro”. E si è beccata persino i ringraziamenti dell’Asl. «Anna (il nome è di fantasia, ndr) è impiegata come me. Mi diceva: “Come faccio?”. I suoi genitori sono morti, conta sulla suocera che però ha in casa la nonna centenaria, ha un bambino di due anni che manda al nido e una sorella che la aiuta con le pulizie. Ma non sono solo i bambini, c’è da lavare, stirare. Intanto le ho detto della Dote e l’ho mandata all’Asl. E non solo lei: l’ho detto a tutte perché poi, sa, nessuno legge gli avvisi. Pensi che quando l’ho detto a una vicina di casa, si è messa a piangere”. E’ vero, lavorare stanca, però… “Guardi, siamo mamme ma siamo anche donne. Tante se ne dimenticano, in questa fase: con i primi figli ci si annulla, i bambini sono davanti a tutto. Però, nelle ore che vivo senza di loro, ho un ruolo e mi sento importante: corro tutto il giorno ma a sera sono soddisfatta. Mi dico: oggi sono riuscita a fare qualcosa”. Ancora due o tre anni: a settembre, Simone andrà a scuola, Andrea all’asilo, sezione primavera. Già si intravvede una vita più facile. Intanto, si combatte: con i soldi, gli orari, il datore di lavoro. “Fino a tre anni, se il bambino si ammala, ci sono i permessi obbligatori. Però, certo, storcono sempre il naso. Io sono fortunata, ho un buon rapporto con l’azienda e posso fare l’orario continuato. Ho colleghe che devono svegliare i figli alle 6 e 30, partire alle 7 e 15 per essere in ufficio alle 8. Sa cosa c’è? Che spesso al lavoro parlano bene ma razzolano male: che il tuo bambino sia ammalato può dispiacere, ma alla fine è prioritario l’interesse dell’azienda. Tutti capiscono, la prima volta che capita, e magari anche la seconda. Ma alla terza, non so. Una mia amica col bambino ammalato è dovuta stare a casa 15 giorni: adesso deve lavorare anche la notte per tenersi il posto. Il marito ha un’attività in proprio che non va bene, lei non può perdere il lavoro”.
Grazie al cielo per la Dote, gli asili, e anche per le maestre: «Sabato sera ho la pizza con loro, che ci fanno trovare i bambini già con la giacca a vento: capiscono che siamo di fretta. Da quando il piccolo ha avuto le convulsioni, sono diventata una mamma apprensiva. Loro hanno capito e, quando sono al lavoro, mi arrivano i messaggi: “Ha mangiato”, “non ha la febbre”, “stai tranquilla”». La conciliazione è come un virus che rende più forti. Per Elisabetta, è diventata un modo di pensare: “Ci si aiuta, anche con la vicina di casa: oggi lo prendi te, domani io”. Anche con l’azienda: «Se sono in difficoltà a pagare i dipendenti, sono la prima a dire: “Se non hai i soldi al 15, dai la paga ai papà di famiglia, io aspetto il 18. Perché magari c’è qualcuno che non ha davvero nessuno a cui chiedere aiuto. Io sono fortunata»
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