ll congedo di maternità e il congedo parentale costituiscono un’importante forma di sostegno alle famiglie. Il loro scopo è non solo quello di favorire il benessere della madre e del bambino, ma anche quello di aiutare a conciliare lavoro e vita familiare (Jaumotte, 2003).
Il fervore che ha accompagnato la diffusione dei congedi parentali non deve però nasconderne i possibili effetti ambivalenti!!!
Se da un lato i sostenitori di congedi prolungati ritengono che questi abbiano effetti positivi sulla salute dei figli e migliorino la posizione occupazionale delle donne, altri autori ritengono che, limitando lo scambio volontario tra lavoratori e datori di lavoro, si riduca l’efficienza economica e si realizzi un ulteriore svantaggio per le donne. In tutti i Paesi europei, infatti, i periodi di congedo vengono utilizzati soprattutto dalle madri e questo ricorso fortemente sessuato contribuisce spesso al mantenimento di disuguaglianze e discriminazioni sessuali sul mercato del lavoro. Una lunga interruzione dell’attività professionale, anche se accompagnata da una garanzia di rientro, può rilevarsi penalizzante per la carriera delle donne e compromettere le loro possibilità di promozione.
E’ POSSIBILE VERIFICARE EMPIRICAMENTE L’EFFICACIA DI QUESTE MISURE DI CONCILIAZIONE??
A livello teorico, congedi di maternità troppo lunghi potrebbero avere ripercussioni negative sull’occupazione e sulle carriere femminili. L’obbligo di preservare il posto di lavoro in favore della dipendente in maternità potrebbe diventare oneroso per il datore di lavoro, se protratto troppo nel tempo. Quest’ultimo, infatti, dovrebbe trovare un sostituto adeguato e al termine del congedo essere obbligato a reintegrare la madre che nel frattempo potrebbe aver perso aggiornamento. Questo costo rischia di tradursi in una riduzione dello stipendio della dipendente. Qualora poi il datore di lavoro non potesse discriminare la dipendente a livello salariale, potrebbe preferire – al momento dell’assunzione – un candidato maschio, soprattutto per le posizioni di responsabilità.
A livello empirico, però, gli studi non sostengono in maniera univoca queste ipotesi. Ruhm (1998) conduce un’analisi empirica su 9 stati europei e conclude che i congedi parentali sono positivamente correlati con l’occupazione femminile, ma negativamente con i salari. Lo stesso effetto negativo sui salari femminili era stato riscontrato da Gruber (1994) in uno studio condotto subito dopo l’introduzione del congedo di maternità obbligatorio in alcuni stati americani; Gruber comunque ne enfatizzava l’efficienza in quanto non aveva ridotto l’occupazione femminile, né si era tradotto in un aumento del costo del lavoro.
Altri studi evidenziano un limite massimo di tempo oltre il quale gli effetti del congedo parentale diventano negativi sia in termini di (mancato) rientro nel mercato del lavoro, che in termini di salari e evidenziano il deterioramento del capitale umano dopo un protratto periodo di assenza. Edin e Gustavsson (2001) analizzano tale relazione in un campione di adulti svedesi osservati per più anni e evidenziano la relazione negativa fra capacità cognitive dei soggetti e assenza dal mercato del lavoro per almeno 12 mesi.
In uno studio su un campione di madri lavoratrici tedesche, Ondrich et al. (2003) trovano delle prove indirette secondo cui incentivare le madri a occuparsi dei propri neonati ha come possibile conseguenza una riduzione della continuità del lavoro e dell’accumulo di capitale umano. Gli autori mostrano infatti che la possibilità per le madri di tornare al lavoro decresce all’aumentare della durata del congedo di maternità. L’effetto appare più forte per le lavoratrici part-time, in quanto più facilmente sostituibili di una lavoratrice full-time.
Al contrario, lo studio comparato di Pronzato sull’estensione del congedo parentale facoltativo in vari paesi Europei trova una correlazione positiva fra prolungato congedo parentale e probabilità che la madre rientri nel mercato del lavoro. Nel modello di Pronzato, la scelta di partecipazione al mercato del lavoro da parte della donna è vista in un contesto di scelte familiari e dipende dal consumo dell’intera famiglia, dal reddito del marito (se in coppia), dal proprio reddito e dalla propria produttività domestica che varia al variare dell’età dei figli. Una volta scaduto il tempo di congedo, la donna deciderà o meno se rientrare nel mercato del lavoro a seconda dell’offerta salariale che riceve e rientrerà solo se, in un’ottica di lungo periodo, lo riterrà conveniente. La probabilità di riprendere a lavorare dopo il congedo obbligatorio è più alta per le donne con alti livelli d’istruzione, per le quali il costo opportunità di restare fuori è maggiore, soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale dove le politiche sociali sono meno generose. Al contrario l’effetto di un più elevato reddito familiare è negativo, ma non molto significativo in alcune nazioni (Pronzato, 2009).